SULL’USUCAPIONE DI BENI COMUNI. CONDIZIONI. (Tribunale di Civitavecchia 04/04/2017 n° 319) A cura dell’Avv. Antonio Arseni-Foro di Civitavecchia

 

Nella ipotesi di domanda di usucapione promossa da uno dei comproprietari rispetto ad un  bene comune, l’elemento qualificante che l’attore deve precisamente allegare e provare, ex art. 2697 CC, non è tanto il possesso ( ovviamente, per il tempo necessario richiesto) quanto piuttosto la esclusività dello stesso, nel senso che esso deve atteggiarsi in termini di definitiva impossibilità di godimento del bene da parte degli altri comproprietari e, quindi, di opposizione alla loro volontà, non essendo sufficiente che questi ultimi si limitino ad astenersi dall’uso della cosa comune. Detta condizione di “esclusività” è giustificata dalla non necessità di un atto di interversione dato che un bene può essere posseduto dal comproprietario “animo proprio” ed a titolo di comproprietà e non di proprietà esclusiva.

 

Questo, in sintesi, quanto emerge dalla sentenza del Tribunale di Civitavecchia del 04/04/2017 n° 319, Giudice Dr. Spinelli, in un caso in cui una Tizia chiedeva l’avvenuto acquisto, a titolo originario per usucapione, del diritto di proprietà piena ed esclusiva su un immobile in Canale Monterano di cui la stessa era comproprietaria sulla base delle risultanze documentali acquisite in giudizio (relazione notarile e visura catastale).

Tale documentazione è stata, per così dire, “funesta” in riferimento agli esiti del giudizio intrapreso, non avendo parte attrice fornito la prova delle circostanze utili per l’usucapione di un bene comune, nonostante la contumacia dei convenuti, la confessione di uno degli stessi – che in quanto litis consorte necessario è liberamente apprezzabile dal Giudice ex art. 2733 co. 3° CC – nonché la mancata risposta dell’interrogatorio formale, che non può avere l’effetto automatico di ammissione dei fatti sottesi alla domanda dato che il Giudice deve sempre valutare tutti gli elementi di prova offerti dalle parti, come invero insegna la Corte Regolatrice (Cass. 17719/2014). E, ciò, nonostante  anche l’espletata prova per testi i quali avrebbero reso dichiarazioni, circa il concreto atteggiarsi del potere di fatto esercitato sulla cosa, prive di qualsivoglia riferimento a quella “esclusività” nel possesso di cui deve essere corredata la domanda di usucapione del comproprietario.

Un giudizio del tutto inutile e superfluo, dunque, che ha visto inesorabilmente soccombente la parte attrice/comproprietaria per non aver allegato e provato l’utilizzo del bene in maniera esclusiva ed in aperta opposizione degli altri comproprietari convenuti in giudizio.

La sentenza in esame si pone perfettamente in linea con le indicazioni nomofilattiche della Suprema Corte, fornite non soltanto nella decisione ricordata dal Giudice civitavecchiese (Cass. 23539/11), ma anche in altre più risalenti e recentemente nella pronuncia della IIa Sezione Civile 06/10/2016 n. 20039, la quale testualmente ha affermato: “Il Condominio può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso, a tal fine però non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di aver goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus, senza opposizione, per il tempo utile per l’usucapione”.

Il Tribunale di Civitavecchia, dunque, coerentemente ai principi affermati più volte dalla Cassazione (si citano, ad esempio, anche Cass. 10294/90, Cass. 1261/98, Cass. 1391/2002, Cass. 7221/2009, Cass. 14171/2007, Cass. 27322/2010, Cass. 24214/2014), spiega che non basta la prova della esclusività del possesso che costituisce la condizione indispensabile tanto per l’usucapione classica del possessore del bene altrui, quanto per la ipotesi del possessore di un bene comune di cui qui si discute.

Ma la particolare posizione del comproprietario del bene comune, postula un quid pluris non essendo sufficiente il mero godimento esclusivo della cosa comune, potendo questo derivare dalla condizione di compossessore del bene accompagnata dalla tolleranza degli altri comproprietari che vantano pari diritti sulla cosa stessa. Una situazione, questa, che potrebbe apparire equivoca, ragion per cui la manifestazione del dominio, in termini di esclusività sulla cosa da parte dell’interessato, deve essere caratterizzata “da una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui” la cui prova rigorosa deve essere data proprio dal comproprietario che invoca l’usucapione di un bene comune.

Nel caso di specie, come già detto, tale prova ed ancor prima la necessaria allegazione, sono purtroppo mancate essendosi evidentemente, la parte attrice, limitata a fornire la dimostrazione di un possesso esclusivo da solo però insufficiente a fondare la domanda di usucapione del comproprietario.

Una istruttoria “zoppa”, quindi, laddove, invece, si sarebbe dovuto provare quella “opposizione” caratterizzata da un comportamento in aperto contrasto con l’altra parte avente pari diritti sul bene.

Le superiori osservazioni evidenziano quale effettivamente sia il c.d. punctum pruriens in subiecta materia, sussumibile nella individuazione dell’effettivo significato da assegnarsi al termine “impedimento” opposto agli altri partecipanti la comunione, non potendosi sicuramente considerare che il solo possesso esclusivo (come visto) possa essere sufficiente ad integrare la condizione richiesta per l’usucapione di un bene comune.

La mancanza di tale indispensabile condizione, è il tipico incidente di percorso che determina spesso il rigetto della domanda, come si legge in molte decisioni giurisprudenziali.

Occorre, allora, fare attenzione, negli atti introduttivi, di allegare oltre le circostanze che declinano per un possesso esclusivo, anche il fatto che tale esclusività si esteriorizza non soltanto attraverso un potere di fatto esercitato sul bene (esempio la coltivazione di un fondo) ma anche attraverso un atteggiarsi del comportamento, di chi invoca l’usucapione di un bene comune, inoppugnabilmente  caratterizzato da un agire in aperto contrasto con chi vanti pari diritti sul bene comune (come, nell’esempio testé indicato, l’immediata reazione del possessore che si oppone fisicamente al tentativo di intrusione nel terreno da parte dell’altro comunista oppure la trasformazione radicale del terreno con recinzioni, costruzioni ed altre opere finalizzate al suo migliore godimento, e che denotano una intensità tale, nelle modalità di fruizione del bene comune, da escludere inequivocabilmente che da parte degli altri comunisti possa essere vantata la sussistenza di una relazione con la cosa analoga a quella dell’usucapiente.

Tali principi sono stati applicati dalla giurisprudenza nella materia de qua in tutte le ipotesi di comproprietà di un bene, sia essa una comunione ereditaria piuttosto che una comunione ordinaria, ancorché il terreno di elezione di simili problematiche si rinvenga in ambito condominiale.

Per fare altri esempi, utili per non incorrere nei rischi suddetti, si pensi all’ipotesi del condomino che asserisca di aver usucapito un bene comune (un piccolo ripostiglio all’ultimo piano dell’edificio condominiale) il quale dovrà provare, oltre l’uso pacifico ed ininterrotto ultraventennale del bene, la circostanza di averlo sottratto all’uso comune attraverso una attività unicamente rivolta contro gli altri condomini tale da rendere loro riconoscibile l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore non essendo sufficiente tuttavia, al riguardo, la prova del mero non uso da parte degli altri condomini.

Così nell’esempio del ripostiglio, comportamento sintomatico utile ai fini dell’usucapione di un bene comune, è l’aver chiuso il ripostiglio (prima lasciato aperto) con una porta in ferro provvista di una robusta serratura le cui chiavi sono rimaste in dotazione, per il tempo necessario all’usucapione, solo a chi invoca tale acquisto a titolo originario. Al contrario, il fatto che una copia di dette chiavi possa essere stata fornita agli altri comproprietari rende il possesso del bene non connotato più di quella intensità  idonea a manifestarlo in termini di esclusività: e ciò anche se i condomini si siano astenuti dall’utilizzo  concreto del ripostiglio.

Per continuare negli esempi, in particolare nell’ambito della comunione ereditaria, appare utile riportare il caso ( esaminato dai giudici di legittimità) di alcuni fratelli comproprietari di un fondo ereditato sul quale in precedenza, negli anni ’60, due di questi fratelli avevano edificato un fabbricato in parte poi dagli stessi abitato ed in parte concesso in locazione. Nel momento di chiedere la divisione da parte degli altri coeredi, i due fratelli eccepivano il possesso esclusivo ultra ventennale idoneo all’usucapione dei beni comuni alla luce delle suddette  circostanze. Gli esiti della causa, tuttavia, si rivelavano negativi per i due fratelli essendo emerso, nella istruttoria del giudizio di merito, che la costruzione del fabbricato era stata resa possibile grazie ad un mutuo acceso da tutti gli eredi il che escludeva quel “dominio utile” agli effetti dell’acquisto a titolo di usucapione del bene comune (v. Cass. 23539/2011).

Altro significativo esempio è quello relativo alla vicenda, esaminata da Cass. 18/06/2007 n° 14171, in cui era stata respinta la domanda di usucapione relativamente ad un immobile in comproprietà fra due fratelli, dei quali uno aveva tentato di estendere il suo titolo di proprietà all’intero cespite per aver lo stesso goduto della cosa per oltre 35 anni, provvedendo ad ogni opera di manutenzione, rifacendo sia la facciata che il tetto del fabbricato, curando le relative pratiche edilizie ed ogni altro atto di gestione ed in particolare i rapporti con il Condominio.

Ma, come detto, la domanda di usucapione (accolta in primo grado) veniva rigettata dalla Corte di Appello e confermata nel giudizio di legittimità sulla base del rilievo che il soggetto, nei cui confronti era stata avanzata detta richiesta, aveva dimostrato che l’usucapiente  non aveva fatto altro che provare l’attività di gestione, ordinaria e straordinaria, perfettamente conforme alle facoltà assegnategli dalla legge quale comproprietario del bene, ma non anche di averne goduto con esclusione degli altri comproprietari.

Pe concludere, è bene richiamare che in tema di comunione ereditaria, di cui sopra si è detto, e con riferimento alla questione relativa al possesso utile ai fini dell’usucapione, vanno distinte due situazioni, così come ricavabili ex pluribus da Cass. 04/10/2012 n° 16896.

La prima contempla quella del comproprietario coerede che può usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis in termini di esclusività; a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall’uso della cosa, occorrendo, per converso, che il comproprietario ad usucapionem ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in maniera tale, cioè, da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus.

La seconda si concretizza, invece, laddove, come nel caso affrontato nella sentenza  appena citata, il comproprietario-coerede sia stato, a seguito di amichevole divisione del compendio  ereditario, immesso nel possesso di un bene in assenza di un contestuale atto di mandato ad amministrare da parte degli altri coeredi. In tale contesto egli comincia, per tale via, a possedere (anche ai fini dell’usucapione) pubblicamente ed a titolo esclusivo il bene assegnatogli de facto, senza che sia necessaria una formale interversione del titolo del possesso od una interversione di fatto, una mutazione, cioè, negli atti di estrinsecazione del possesso medesimo tale da escluderne un pari godimento da parte degli altri coeredi.

Per finire, va segnalato un altro importante principio expressis verbis affermato dal Tribunale di Civitavecchia: quello che si usa comunemente dire della “ragione più liquida” per cui l’evidenza delle questioni viene fatta prevalere sull’ordine della relativa trattazione, in ossequio alle esigenze di celerità e speditezza nonché di economia processuale di cui agli artt. 24 e 111 Cost..

In buona sostanza, quando l’esame di una questione possa definire il giudizio senza che sia necessario esaminare le altre logicamente preliminari, ma comunque inidonee a condurre ad un esito del giudizio favorevole all’attore. Nella specie la accertata infondatezza della domanda di usucapione rendeva del tutto ultroneo ed inutile l’esame della richiesta di integrazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti effettivamente  legittimati dal punto di vista passivo.

 

Giugno 2017 – Avv. Antonio Arseni – Foro Civitavecchia