TERMINE ESSENZIALE, CLAUSOLA RISOLUTIVA ESPRESSA E DIFFIDA AD ADEMPIERE NELLA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE (Cass.03.05.2019 n.11755 ed altre) A cura dell’Avv. Antonio Arseni – Foro Civitavecchia

1. Cosa si intende per termine essenziale

Come è noto, viene definito essenziale il termine fissato per l’inadempimento: esso costituisce, in generale, nel nostro Ordinamento, un efficace strumento per permettere lo scioglimento di un vincolo contrattuale che non è ritenuto più utile per la parte che se ne avvalga, salvo che quest’ultima decida di mantenerlo in vita.

La dottrina distingue una essenzialità soggettiva del termine essenziale contrapposta ad una essenzialità soggettiva: la prima figura ricorre allorché il termine sia stato pattuito dalle parti, come nel caso di preliminare di compravendita immobiliare laddove sia stata stabilita una data del rogito notarile definitivo; la seconda figura ricorre allorché l’essenzialità del termine sia ricondotto alla natura della prestazione da eseguire, come nel caso di fornitura di capi di abbigliamento estivi che vengono consegnati in inverno, dunque, in un momento in cui è venuto meno l’interesse al loro acquisto.

Concentrando l’attenzione sul termine stabilito nel contratto preliminare, entro cui le parti dichiarino che debba essere stipulato il definitivo, l’indagine sulla esistenza della relativa essenzialità è di una certa importanza perché si attui il meccanismo risolutorio che le è proprio.

L’art. 1457 CC, che insieme all’art. 1456 CC, costituisce il riferimento normativo per la disciplina degli effetti in caso di inadempimento di un contratto preliminare, laddove inutilmente è spirato il termine ivi previsto per la stipula di quello definitivo, dispone che “se il termine fissato per la prestazione di una delle parti, deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione, nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto si intende risolto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”.

Una prima considerazione, letto il comma 1° dell’art. 1457 CC, riguarda la caratteristica della c.d. essenzialità, cui fa riferimento la norma citata, da individuarsi, invero, nel fatto che essa deve risultare o dalla volontà espressa delle parti o dalla natura del contratto (cfr Cass. 3710/2013).

In altro senso, come opinato da una ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, il termine per l’adempimento può considerarsi essenziale solo quando “all’esito di indagine, da condurre alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti – ancorchè senza l’uso di formule sacramentali – e della natura e dell’oggetto del contratto, risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine stesso.

In un contratto preliminare il termine per d’adempimento viene individuato sulla base della interpretazione del compromesso stesso e la volontà non può desumersi , come espressa in detta direzione, attraverso l’uso della nota formula “entro e non oltre” (v. ex multis da ultimo Cass 26/03/2018 n° 7450, Cass. 16/07/2018 n° 18835).

Insomma, “il termine per l’inadempimento indicato nel contratto deve ritenersi essenziale quando la sua improrogabilità risulti dalle espressioni utilizzate dai contraenti, anche senza l’uso di formule sacramentali, ovvero dalla natura e dall’oggetto del contratto, la cui utilità economica, avuta presente dai contraenti, sarebbe perduta per effetto dell’inutile decorso del termine pattuito (così Cass. 29/08/1997 n° 8233).

Inoltre, l’indagine sulla essenzialità o meno del termine per adempiere, funzionalmente diretta ad accertare l’oggettivo interesse del creditore all’adempimento, entro quel termine, rimane irrilevante laddove l’essenzialità risulti prevista specificamente dalla volontà delle parti (Cass. 09/11/1976 n° 4098).

La prospettiva interpretativa secondo cui il termine essenziale, per gli effetti suoi propri, postula necessariamente che la scadenza sia esattamente individuata ed individuabile, esclude che possa essere connotato dal carattere della essenzialità quel termine in cui la scadenza sia determinata o determinabile approssimativamente, come nel caso in cui essa è indicata in modo relativo o variabile, in ragione del tempo occorrente per lo svolgimento di una attività, soprattutto quando questa si presenti complessa: ipotesi ritenuta ravvisabile , ad esempio, nel tempo occorrente per provvedere alla estinzione delle passività gravanti su un immobile oggetto di negoziazione (cfr Cass. 14/02/1975 n° 566).

Le superiori osservazioni appaiono rivestire un interesse particolare proprio in ipotesi di contratto preliminare ove non è sempre agevole distinguere se il termine debba ritenersi “essenziale”, con conseguente risoluzione di diritto del contratto con efficacia automatica, a mente dell’art. 1457, 2° comma, CC, o, al contrario, debba ritenersi “semplice” (o non essenziale) nel qual caso, qualora l’indicazione temporale contenuta nel preliminare non venisse rispettata da una delle parti, questa sarà inadempiente ed in mora ma il contratto resterà comunque ancora vincolante inter partes.

Abbiamo detto che non è sempre possibile riconoscere, nel caso concreto, la presenza o meno di un termine essenziale e quindi la giurisprudenza è meritoriamente intervenuta per precisare che, in caso di dubbio, la essenzialità del termine è da escludersi data la funzione eccezionale dello stesso.

Ed invero l’essenzialità del termine, idonea a provocare la risoluzione contrattuale, è da collegarsi alla volontà del creditore (si parla al riguardo di termine essenziale ex voluntate) il qual rimane arbitro di un adempimento tardivo come previsto dall’art. 1457 CC, 1° comma, ultima parte, a condizione che ne dia notizia all’altra parte entro tre giorni.

2. Le differenze con la clausola risolutiva espressa.

Il silenzio sul punto rappresenta il fatto costitutivo della risoluzione non essendo richiesta una dichiarazione espressa, a differenza di quanto accade per una figura simile rappresentata dalla clausola risolutiva espressa, a mente dell’art. 1456, 2° comma, CC . Disposizione, quest’ultima, secondo cui, in ipotesi di obbligazione inadempiuta sulla base delle modalità stabilite in apposita pattuizione, la risoluzione opera di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende avvalersi di detta pattuizione.

Le due figure giuridiche , dunque, risultano essere accomunate per quanto riguarda gli effetti (risolutori) dell’inadempimento, diversificandosi nel meccanismo operativo, praticamente inverso nella obbligazione a termine essenziale rispetto a quello della clausola risolutiva espressa: scaduto il termine non è necessario da parte del creditore comunicare al debitore la volontà di avvalersi della risoluzione in quanto il contratto si risolve di diritto mentre, al contrario, lo è allorquando il medesimo decide di non avvalersi della risoluzione preferendo esigere la prestazione.

Trattasi, dunque, di un diverso atteggiarsi della volontà del creditore deluso che produce effetti risolutivi,: 1) nella clausola di cui all’art. 1456 cc, attraverso la dichiarazione al debitore dell’intenzione di avvalersi della facoltà potestativa prevista dalla legge; 2) nel termine essenziale di cui all’art. 1457 con lo spirare di tre giorni a partire dalla scadenza del termine senza che il primo abbia dichiarato all’altro di volere l’esecuzione (cfr Cass. 26/11/1994 n° 10102).

Alla luce dei superiori principi in subiecta materia può dirsi, sintetizzando, che la risoluzione del contratto in cui è previsto un termine essenziale possa così essere delineata: a seguito della scadenza del termine essenziale il creditore insoddisfatto diviene titolare, ex lege, di un potere privato di risoluzione, il quale potrà esercitarlo anche attraverso un mero silenzio, interpretato invero dalla stessa legge come volontà di volersi avvalere della risoluzione, a meno che il creditore stesso non opti per l’adempimento tardivo del debitore, notiziandolo con comunicazione da effettuarsi entro tre giorni. Le due scelte, secondo la maggioranza della dottrina, non sarebbero le uniche possibili essendo data facoltà al creditore deluso di utilizzare lo strumento dell’art. 1218 cc per richiedere, in luogo della prestazione inadempiuta, il risarcimento danni ossia l’equivalente in denaro della prestazione mancata oltre l’ammontare di quelli ulteriori(c.d.perpetuatio obbligationis).

3.La produzione degli effetti risolutori prescinde dalla valutazione dell’importanza dell’inadempimento

È appena il caso di ricordare che i suesposti principi vanno integrati nel senso che in presenza di un termine essenziale, previsto contrattualmente e del fatto costitutivo della risoluzione, rappresentata dal silenzio della parte insoddisfatta, l’inadempimento deve essere imputabile al debitore ancorché la risoluzione operi di diritto senza che sia necessaria indagine alcuna sulla importanza dell’inadempimento (v. Cass. 03/07/2000 n° 8881, Cass. 18/02/2011 n° 3993), “salvo rinuncia anche implicita del creditore, dopo la scadenza del termine, all’essenzialità dello stesso” (così Cass. 22/07/1993) e salva anche l’ipotesi di comportamento contrario a buona fede della controparte , quando per l’adempimento si richiede la cooperazione di entrambi i contraenti (Cass. 14/03/1986 n° 1742).

Sotto tale ottica, non costituisce inadempimento imputabile l’ipotesi in cui l’effetto risolutorio sia commesso al mancato ottenimento, entro una determinata scadenza, di un provvedimento amministrativo per ragioni non ascrivibili al comportamento dei contraenti, dovendo tale evenienza essere riconducibile al mancato verificarsi di un evento futuro ed incerto e, conseguentemente, qualificarsi come condizione risolutiva negativa (Cass. 24/06/2008 n° 17181). E, ciò, al pari di quanto avviene per la clausola risolutiva espressa (cfr in tal senso Cass. 14/07/2000 n° 9356 e da ultimo Cass. 22/02/2019 n° 5401).

Va osservato, al riguardo, che laddove difetti il requisito dell’inadempimento non imputabile al debitore, il nostro Ordinamento prevede altri rimedi, segnatamente previsti dagli artt. 1256 e 1463 cc, in caso di sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta che ha un effetto liberatorio per il debitore, secondo i termini e le modalità ivi dettagliatamente previsti.

Quanto sopra, a differenza del termine ritenuto non essenziale, la cui natura impedisce la configurabilità di una risoluzione di diritto del contratto, affidata, in caso di inosservanza del termine, ad una valutazione della importanza dell’inadempimento, da compiersi da parte del Giudice ex art. 1453 CC (cfr Cass. 03/06/1991 n° 6224).

4.Il creditore insoddisfatto può impedire l’effetto risolutivo del contratto?

Si discute se l’effetto risolutivo, che consegue al silenzio del creditore deluso, possa essere impedito dal medesimo. Una parte della giurisprudenza ritiene di si potendo, quest’ultimo, ripristinare l’obbligazione contrattuale, accettandone l’adempimento (v. Cass. 24/11/2010 n° 23284).

La rinuncia al termine essenziale, anche dopo la sua scadenza, successiva ai tre giorni di cui all’art. 1457 CC, può assumere forme implicite e risultare da fatti univoci ed indicativi della circostanza che il creditore, accettando l’adempimento tardivo del debitore, abbia ritenuto più conforme ai propri interessi l’esecuzione del contratto che non la risoluzione di diritto del medesimo (così Cass. 03/07/2000 n° 8881, Cass. 05/07/2013 n° 16880): ciò al pari della clausola risolutiva espressa (Cass. 18/06/1997 n° 5455).

Di segno contrario sembrerebbe l’interpretazione, al riguardo, espressa dalle S.U. (Cass. 14/01/2009 n° 553) che ha reputato di dover ritenere irrinunciabile l’effetto risolutivo conseguente al silenzio serbato dal creditore trattandosi di effetto sottratto alla libera disponibilità del contraente stesso, a tutela anche della parte che, allo spirare del termine abbia posto un affidamento legittimo nella avvenuta cessazione degli effetti del negozio.

5. L’effetto risolutivo del contratto ottenuto attraverso la diffida ad adempiere. Valutazione della congruità del termine ( spatium deliberandi) all’uopo assegnato al debitore

Nel caso in cui non sia stata negoziata dalle parti una clausola risolutiva espressa ovvero un termine essenziale per l’adempimento o quello pattuito è privo del carattere dell’essenzialità, al contraente è data la possibilità di conseguire l’effetto risolutivo ipso iure attraverso la diffida ad adempiere “la cui ratio è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all’esecuzione del negozio, mercé un formale avvertimento alla parte diffidata che l’intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell’adempimento della obbligazione (cfr Cass. 28/06/2001 n° 8844).

Con la diffida ad adempiere viene fissato dal creditore un termine che in pratica si atteggia alla stregua di un termine essenziale capace di produrre la risoluzione ipso iure del contratto se la obbligazione non è adempiuta entro la scadenza indicata.

La diffida esige, per conseguire gli effetti risolutivi, la manifestazione univoca della volontà dell’intimante di ritenere risolto il contratto nel caso di mancato adempimento della controparte entro un certo termine.

Trattasi, infatti, di una forma di autotutela alternativa alla facoltà di adire il Giudice per ottenere sentenza costitutiva che, pur costituendo esercizio di un diritto potestativo, non è tuttavia rimessa all’arbitrio della parte, occorrendo pur sempre che l’inadempienza, già manifestatasi – per la cui cessazione l’intimante accorda un termine perentorio, oltre il quale la stessa non può essere più tollerata – risponda agli ordinari ed indispensabili requisiti della imputabilità ed importanza (v. Cass. 13/03/2006 n° 5407).

Dunque, una diffida ad adempiere non esitata non elimina la necessità, ex art. 1455 cc, dell’accertamento giudiziale per valutare la sussistenza degli estremi soggettivi ed oggettivi dell’inadempimento.

L’art. 1454 CC prevede che lo spatium deliberandi, a disposizione del debitore per evitare gli effetti della diffida, debba essere congruo e comunque non inferiore a 15 giorni, salvo un termine minore fissato per volontà delle parti o risultante dalla natura del contratto o secondo gli usi.

La valutazione della congruità del termine, assegnato nella diffida per l’adempimento, è rimessa al Giudice sulla base di un accertamento di fatto, invero sottratto al sindacato di legittimità.

Su tale ultima questione è intervenuta una recente sentenza della Corte Regolatrice (Cass. 03/05/2019 n° 11715) che ha ribadito il principio di una risalente giurisprudenza (Cass. 30/10/1980 n° 5842) secondo cui la congruità del termine è posta dall’art. 1454 CC come regola generale, per cui quando, nel comma 2, si stabilisce che il termine non può essere inferiore a quindici giorni – salvo che, per le ipotesi ivi previste, risulti congruo un termine inferiore – ciò significa non già che il termine di quindici giorni debba ritenersi sempre, con una presunzione iuris et de iure, adeguato, ma, semplicemente, che la dimostrazione della necessità di una minore o maggiore lunghezza del termine (e quindi della [in]sufficienza di quello concesso) grava, a seconda dei casi, ora sull’intimante ora sull’intimato.

Senonché, nella specie scrutinata nella decisione della Cassazione appena richiamata – in cui il termine assegnato era stato in pratica di 11 giorni -in quanto la diffida notificata il 09/11/2009 mentre la data per l’atto definitivo di compravendita era stata fissata per il 20/11/2009 – viene addebitato al Giudice del merito che nessuna indagine sull’adeguatezza del termine era stata effettuata non facendo così corretta applicazione dei principi sopra illustrati: quindi cassazione della sentenza gravata e rinvio ad altra sezione della Corte di appello territoriale per il riesame dell’impugnazione alla luce dei principi sopra affermati.

Giugno 2019- Avv. Antonio Arseni